Il Principe Ranocchio

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parte 2 di 2

 

… Quando la principessa riaprì gli occhi, il cuoricino le martellava nel petto ed il respiro ne sottolineava l’impazienza, tra le sue mani non c’era più il verde e lucido anfibio maculato di giada ma un ranocchio spellato a vivo, con i muscoli e le cartilagini esposte e la sacca d’aria che palpitava indecorosa. La principessa lanciò un grido lasciando cadere l’animale che, emettendo un gracidio impotente si limitò a cadere con un tonfo sordo.

– Ma… ma! Cosa è successo? Oddio! Che cosa sei diventato?

Il ranocchio la fissava dal basso mentre le carni gli bruciavano orribilmente a contatto con l’aria.

– Non lo so…- disse a bassa voce con un’aria affranta (la stessa aria che assumeva quando voleva farsi perdonare un’impertinenza) – non capisco. – Il ribrezzo negli occhi della bambina si stendeva impietoso su quell’ammasso di ossa e sangue freddo, il volto raccoglieva tutto l’orrendo stupore che la sua giovane età le permetteva. – Mi sento bruciare principessa! La mia carne e le mie vene si seccheranno presto se non fai qualcosa!

– Ma cosa posso fare io? Non so cosa… vado a chiamare qualcuno, l’archiatra … o uno sguattero per…

Il ranocchio, addolorato raccolse le ultime forze per dire – No. Portatemi da lei. Saprà cosa fare. Forse… saprà cosa fare ed io non morirò.

– Lei chi? La strega? Dove la trovo? Io non so… ho paura… e non voglio toccarti, mi fai ribrezzo. Non mi sento bene…

– Per favore – la flebile voce era appena udibile a quel punto – prendete un contenitore qualsiasi, una scatola, ed io ci entrerò. Poi mi porterete al villaggio. Dalla rilegatrice.

– La rilegatrice? Ma cosa c’entra la…

– È lei che mi ha trasformato. Ma basta adesso, non fatemi più parlare. Non vedete che non ce la faccio più? – La principessa, combattendo la repulsione che le stringeva la gola fece quanto aveva detto il ranocchio. Docilmente questi entrò nella scatola di latta che ella gli porgeva e che venne immediatamente richiusa sopra di lui. Nel buio di quel contenitore la bestiola sentiva gli artigli di ogni secondo, ogni oscillante minuto che lo separava dalla casa della rilegatrice; provò a pensare a qualcosa, un pensiero felice, un’idea brillante, ma il buio lo circondava e il dolore era troppo forte. Svenne come solo un anfibio può svenire: senza un suono e senza amici.

La piccola mano della principessa si strinse a pugno e batté sulla porta di legno scuro. Attese qualche istante con la scatola che diventava sempre più pesante, i piedini indolenziti per la fretta e il panico la facevano sentire a disagio, come una persona qualsiasi. Nel tragitto dal castello a quella casa dal tetto di pietra si era proposta di sballottare il meno possibile il contenitore per non far soffrire ancora di più l’aberrazione che vi era contenuta, ma aveva poi ceduto alla preoccupazione che l’animale morisse prima che la rilegatrice potesse occuparsene e lei non desiderava affatto vedere una bestia morta, soprattutto una che si era immaginata di trasformare in principe ma che era divenuto un aborto davanti ai suoi occhi colmi di speranza.

Qualche rumore all’interno dell’abitazione faceva presagire l’apertura della porta – Sì? – disse la rilegatrice apparendo sulla soglia. Una ciocca si era ribellata all’acconciatura della donna conferendole un’aria seria e accogliente al tempo stesso, la mano destra era ancora appoggiata sulla maniglia nel momento in cui gli occhi riconoscevano la figlia del Re indagandone la figura. – Signora! – Esclamò la piccola come se un peso le rotolasse via dal petto –signora rilegatrice! Ho qui in questa scatola… le porto un ranocchio che… è tutto spellato adesso, lui mi aveva detto di baciarlo per farlo tornare un principe, che una strega cattiva lo aveva trasformato, che… – grosse lacrime le rotolavano sulle guance mentre spingeva il contenitore tra le mani della donna che, prendendola, la invitò ad entrare e sedersi. Tra singhiozzi e tazze di tè fumante la principessa riprese a parlare – lui… lui mi ha detto di portarlo qui perché probabilmente voi sapevate cosa fare… ma non so, adesso… l’incantesimo è troppo potente, forse morirà se non lo ha già fatto. La rilegatrice alzò leggermente il coperchio per verificarne il contenuto. – Iris. – disse

– Come?

– Mi chiamo Iris. E no, il ranocchio è ancora vivo.

– Siete una strega?

– Non più di quanto lo sia ogni donna. Non c’è nessuna strega cattiva se è questo che state chiedendo, non in questa storia, almeno.

La bocca della piccola si spalancò mettendo in mostra i bei dentini allineati, poi con gli occhi grandi e la voce sottile sussurrò – Io… io non capisco.

– Non c’è nulla da capire, mia cara principessa. Lasciate pure il ranocchio a me, me ne occuperò.

La principessa abbassò gli occhi sulla scatola che giaceva al centro del tavolo senza riuscire a dissimulare una smorfia di discgusto. – Andate, adesso. Sono sicura che è stata una prova molto dura per voi.

– Sì. Grazie, Iris. – la giovane si alzò in piedi e si ravvivò il vestito e l’acconciatura davanti al piccolo specchio accanto alla porta che la rilegatrice aprì silenziosa. Partita la principessa si diresse verso l’armadio di quercia dal quale estrasse una morbida tela di cotone bianco che inumidì nel lavabo, la sistemò con cura sopra una sedia intagliata, aprì la scatola e con delicatezza ne estrasse il ranocchio per deporlo subito dopo tra le pieghe fresche e umide – Guarda come ti sei ridotto – gli disse, sospirando triste alla vista di quella creatura dall’aspetto meschino. Il ranocchio si mosse appena, come per segnalare che aveva capito dove si trovava e che aveva riconosciuto la voce della donna. La rilegatrice si dedicò alle attività che aveva previsto per la giornata, il suo lavoro richiedeva molta perizia e non dedicò al ranocchio più del tempo che fu necessario per controllare se respirasse ancora durante le pause che la sua professione imponeva. Giunta la sera, dopo un pasto frugale ed essersi preparata per la notte, Iris tolse il ranocchio dalla tela ormai asciutta e lo adagiò nel letto accanto a sé. Cominciò a leggere ad alta voce una storia racchiusa in una copertina di marocchino rosso, la sua voce giungeva chiara sotto alle coperte dove il ranocchio rannicchiato ascoltava avido il dipanarsi di quella trama avvincente sentendosi bene per la prima volta dopo molto molto tempo. La luce si spense e venne il sonno. Nella luce dell’alba quello che era stato un ranocchio si risvegliò uomo. Iris lo stava osservando all’ombra di un sorriso.

– Ebbene, mio caro. Sei tornato uomo. Contento?

Il ranocchio-uomo si mise a sedere per osservare che tutto fosse come doveva. Si passò la mano sugli avambracci, sul viso, sulle cosce. Si tolse di dosso la coperta per osservare le dita dei piedi che si muovevano secondo il suo comando.

– Finalmente! – Esclamò gaio girandosi verso di lei, gli occhi neri scintillavano meravigliosi – Non pensavo che sarei mai potuto tornare ad essere un uomo!

Iris scosse la testa, a gli si inginocchiò accanto – Ti avevo avvisato che sarebbe accaduto se te ne fossi andato. Tu hai voluto fare di testa tua… e sei tornato ad essere un ranocchio.

– Sono stato umano per qualche tempo, dopo.

– Lo immagino. Sei rimasto umano fino a che non ti sei dimenticato del nostro amore. Poi…

– Non mi sono mai dimenticato del nostro amore.

– Purtroppo i fatti sostengono altrimenti. Il tuo aspetto naturale è quello di un anfibio, lo sai. Quello di uomo ti è stato, come dire, concesso accanto a me.

– Questa è una sciocchezza! Io sono fatto per essere umano. Sono un uomo! Con barba, capelli e tutto, lo vedi tu stessa!

– Mi spiace, no. Forse hai dimenticato. Quando ci siamo incontrati non eri che un ranocchio di stagno, un eccezionale ranocchio di stagno ma niente più di questo. Poi ti ho portato a casa con me perché avevamo parlato così tanto che, mi ero detta, eri una compagnia assolutamente indispensabile. Eri meraviglioso. Intelligente e charmant comme un prince. E poi, un bel mattino, ci siamo sorpresi vedendoti trasformato in uomo. Un bell’uomo, forte e gentile. Ricordi adesso?

– Io mi ricordo di te e del fatto che, quando me ne sono andato da qui, sono diventato un ranocchio.

– È una maledizione. Siamo stati maledetti entrambi. – Iris abbassò la testa, ora sulle sue labbra era rimasta solo un’ombra sporca di baci.

– Non mi pare che tu ti sia trasformata in niente, sei come prima. Come quando ti ho… quando me ne sono andato.

– Oh, sono più vecchia. Più stanca. – Disse lei a bassa voce – E la maledizione mi ha colpita, eccome! Ha segnato tutti e due in modo squisitamente crudele. Io sono stata condannata a non amare nessun altro fuor che te. Da quando te ne sei andato tutti quelli che mi hanno corteggiata sono stati respinti. I miei sentimenti sono diventati impenetrabili, il mio cuore irraggiungibile.

– Maledizione! – Esclamò l’uomo-ranocchio battendo un pugno sul candido materasso di piume, poi girandosi verso di lei proseguì – Ma noi ci vogliamo bene, giusto?

– Ce ne siamo voluti molto, questo è certo. Ma adesso non so più. Il fatto che tu sia ritornato ad essere uomo mi fa credere di sì, ma poi… chissà. Forse è solo momentaneo. – Iris si sedette sul bordo del letto volgendogli le spalle. – Vedremo. Vedremo. – mormorò lui e si mise in piedi in cerca di vestiti da indossare. – Ce ne sono ancora nell’armadio laggiù, nell’anta di destra. – gli disse uscendo dalla camera. Lui scese prudentemente dal letto come per collaudare quel corpo che un tempo era stato suo, si abbigliò diligentemente e raggiunse la rilegatrice in cucina che nel frattempo aveva preparato la colazione. Mangiarono in silenzio, poi lei si mise al lavoro mentre lui si accomodò su una poltrona accanto alla finestra luminosa abbandonandosi alla lettura.

– Credo che andrò a fare una passeggiata, – disse alzandosi – voglio vedere se qualcosa è cambiato nel villaggio, se ci sono novità.

Iris alzò lo sguardo, sorrise leggermente e si rimise a punzonare le pagine che stava preparando. Molti pensieri si rincorsero nella sua mente in quelle ore solitarie. Si chiese se avesse fatto bene ad accogliere di nuovo il suo amore dopo che lui l’aveva abbandonata così, senza una parola e senza rimorso. Si domandò a quante altre ragazze avesse rivolto parole affettuose, a quante si era dedicato mentre lei era rimasta con il cuore pesante senza sapere se l’avrebbe rivisto mai più. Senza capire perché era andato via dopo che aveva affermato d’amarla così intensamente. Oh, ma la gioia che aveva provato nel ritrovarlo! Quando la principessa era arrivata proponendole quella scatola lei aveva capito immediatamente! E la promessa di ricominciare ancora! Come poteva provare così acutamente un desiderio che non sapeva nemmeno di avere? Cosa fare adesso? Cosa doveva fare? Certo non poteva più permettersi di soffrire così. Non poteva più permettergli di farle del male. Doveva essere forte, doveva trovare una soluzione.

– Sono tornato! – Richiuse la porta e la baciò delicatamente. Lei si abbandonò a quelle labbra calde che l’avevano sempre portata in luoghi meravigliosi e si mise a preparare la cena. Mangiarono davanti al fuoco scoppiettante del camino, tutto era caldo, tutto era perfetto. Sembrava che gli anni in cui erano stati separati non fossero mai trascorsi, che finalmente ogni cosa fosse come doveva essere: sorrisi e sguardi complici, parole e carezze, pensieri e propositi.

Giunse l’ora di coricarsi ­– Domani andremo a fare una passeggiata insieme – propose il suo principe ranocchio – ho scovato un bellissimo negozio di libri antichi, sono sicuro che ti piacerà – Lei gli sorrise dolcemente baciandolo sulle palpebre ­– D’accordo, è deciso allora. – Gli rispose.  Soffiò sulla candela e la camera venne avvolta dalla luce polverosa del cielo notturno. Il silenzio che precedeva il sonno cedette al respiro regolare di un uomo felice e Iris, in punta di piedi, andò a prendere il punzone che aveva lasciato sul tavolo da lavoro. Dieci centimetri di acciaio finissimo impedirono al sole di spuntare ancora su di lui, che non si accorse del fiore rosso che gli era sbocciato sul petto, lei si accomodò tra le sue braccia e lo seguì.

E vissero per sempre felici e contenti.

Il Principe Ranocchio

Parte 1 di 2

 

Nel castello di un regno lontano abitato da animali dai leggendari propositi, principi, fornai, psicotrapezzisti e pecore dal vello dorato di dubbia origine, dalla torre più alta delle ripide mura che cingevano un maestoso palazzo tutto vetro e stucchi circondato da splendidi e rigogliosi giardini, una principessa stava giocando a badminton con la cugina. Le due bambine si muovevano graziose sul prato tagliato di fresco, agitando le racchette dorate nell’aria tiepida e colpendo il volano che saltellava gioioso oltre il cordone rosso che divideva il campo; il gioco era molto più difficile di quanto potesse sembrare poiché il volano, la cui punta era incrostata di diamanti, pesava due chili e mezzo. Certo, i tricipiti delle giovinette erano ben sviluppati, ciò non toglieva il fatto che la cugina in questione fosse poco abile e pronta e che, per questo, venisse rimbeccata continuamente ed incitata a spicciare il nobil passo. Era forse a causa del fatto che possedeva una minor percentuale di sangue reale a renderla così torpida? Era forse da imputarsi ai festini a base di piume di Guguaradù che si succhiano fino ad appannare il cervello ed a intorpidire i sensi, storpiare i sapori e pisciare arcobaleni? Non conoscendo la risposta, la Principessa continuava ad incitarla senza tregua: non sopportava di giocare con qualcuno che si impegnasse meno di lei.

– Forza Belle, muovi quelle gambe!

Imbelle, questo era il nome della cugina, si limitava a fissarla con gli occhi socchiusi muovendo le braccia con il solo intento di battere il volano per non incappare nelle reali ire, sperando di farlo cadere per terminare al più presto la partita. Purtroppo il volano non aveva alcuna intenzione di divenire complice di un piano tanto ordinario. Era fatto, si diceva, per conquistare tutti i campi da badminton del mondo scintillando con suoi diamanti sotto gli innumerevoli soli che scaldavano le terre rosse d’oriente e che illuminavano quelle grigie delle alte montagne.

La partita proseguiva. Il tic – toc cadenzava il ritmo delle attività che, più proletarie e certamente meno interessanti, si rincorrevano in quelle ore mattinali. I cuochi preparavano il pranzo, gli agricoltori coltivavano i campi, gli stallieri strigliavano diligentemente i trentasette pony della principessa, i calzolai orfani di elfi rattoppavano le calzature tra sbuffi sbavanti e odori ingombranti.

Imbelle pensava, come le capitava ormai raramente, che era proprio stufa di giocare. Che avrebbe preferito andare a mettere i piedini nel ruscello e sdraiarsi all’ombra per approfittare della vista delle farfalle che ancora volavano sopra le testoline colorate dei fiori selvatici mentre lei poteva sciogliersi nell’oblio della mente silenziosa. Con questo brandello di senso compiuto ancora dietro gli occhi si ritrovò a dare un colpo inusitatamente potente al volano che, gagliardo, schizzò ad una distanza sorprendente obbligando la principessa a sospendere il gioco per andarlo a cercare e permettendo finalmente ad Imbelle di andare all’ombra del ruscello per guardare i capini delle farfalle selvatiche ed i fiori che le svolazzavano intorno.

La principessa borbottava tra sé, seccata di quell’inconveniente. Non poteva certo permettere alla cugina di rintracciare il prezioso volano, ci avrebbe messo un’eternità e quando l’avesse trovato si sarebbe messa a spiumarlo per ricavarne quelle penne idiote che succhiava di nascosto e che, dicevano i dottordontisti, l’avevano resa insensibile agli umani bisogni. Ora, raggiunto il laghetto, cercava il volano vicino alle sponde verdeggianti, da lì poteva vedere l’argenteo ruscello che si srotolava tagliando a metà i giardini reali; le canne ondeggiavano svogliate e qualche uccello frullava tra l’erba alta. – Dove si sarà cacciato? – Protestò battendo un piede per terra. Nessuna risposta dai tronchi millenari, né dalle bestiole che la osservavano dal verde scuro degli spettinati cespugli di mirto. Non molto principescamente la bambina emise un grugnito e cominciò a calciare l’erba intorno a sé trovando, molto sconvenientemente, un piacere genuino in quel gesto di stizza.

– Oh, Voi!  – Si fermò. Qualcuno l’aveva chiamata, sembrava, ed ora stava cercando di capire da dove venisse quella voce. – Oh, a me? – protestò –Ma con chi credete di parlare? Palesatevi immediatamente! – gli occhi vagavano alla ricerca di un movimento rivelatore – Son qui! Son qui! – annunciava la voce che sembrava essere vicina. – Smettetela di prendermi in giro! Non vi vedo! –

Qualcosa toccò il piede della principessa e questa, con un balzello, si spostò indietro pronta a tirare un calcio a qualunque cosa si fosse trovata davanti.  La prima cosa che vide fu il volano incrostato di diamanti che raccolse sospirando di sollievo, spostando lo sguardo si accorse poi del ranocchio incredibilmente fuori taglia che gli era accanto e, di nuovo, grugnì di noia. – Forse ho le allucinazioni – sentenziò girando i tacchi ed incamminandosi verso casa – No! No! Non potete andarvene! – La voce era diventata acuta, a questo punto – Ho trovato io il vostro piumino ingioiellato, dovete darmi una ricompensa! – La principessa si volse indietro ispezionando la verzura – Io chi? – chiese innervosita

– Io, io! Me!

– Insomma! Adesso basta! Io chi?

Il ranocchio cominciò a saltellare verso la giovane ed ogni volta che toccava terra lanciava un – Io! – che l’aria raccoglieva e disperdeva immediatamente. – Tu? Una rana improbabilmente grande? Una rana improbabilmente grande che parla? – gli occhi della bambina rivelavano un grande disappunto

– Sì, io. Un ranocchio improbabilmente grande che parla – disse questi raggiungendo i piedini calzati di rosso. – Pensavo fossi una rana bue – disse la Principessa sporgendosi appena per inquadrare meglio la creatura – Adesso dovete darmi una ricompensa, ho trovato il vostro giocattolo ingioiellato. – Per un momento che sembrò infinito la principessa sembrò ponderare sul da farsi poi si risolse a rispondere, come le era stato insegnato, nel modo più cortese possibile – Certo che avrai una ricompensa, dopotutto mi hai impedito di insozzarmi i piedi nella melma che circonda il lago per recuperarlo; è lì che abiti, no? – il ranocchio sembrava vessato da quella affermazione ma decise di non essere nella posizione di replicare con dignità – Non abito proprio lì ma mi ci trovavo per ragioni personali, diciamo.

– Bene, non importa. Che cosa desideri ricevere?

– Vorrei un bacio. – proferì solennemente – non so se siete a conoscenza della fiaba ma di solito è così che si fa quando una principessa perde qualcosa e un suddito la recupera.

– Veramente – precisò lei dall’alto del suo metro-e-quaranta-sette –  l’anno scorso quando la mia palla dorata è finita nella stalla ed il ragazzo che ci lavora me l’ha riportata per non farmi scomodare, l’ho ringraziato con una dose doppia di patate per cena. Sì è detto molto grato.

– Io non sono uno stalliere, mia cara principessa. Non lavoro tra la merda di cavallo.

– Merda di pony – precisò lei – affare molto differente, mio caro signor anfibio.

– In ogni caso io voglio un bacio. E lo voglio perché sono qualcosa di diverso da un semplice ranocchio. Sono un principe colpito da maleficio e per tornare ad essere umano devo essere sfiorato da delle labbra di una vera principessa.

La giovinetta soppesò attentamente la questione – Quest’affare mi ricorda qualcosa, in effetti. – tamburellò le dita graziose sul mento, prima di riabbassare lo sguardo in direzione dell’animale – Poco più di un anno fa, mia cugina Belle mi ha raccontato di avere baciato un ranocchio e che a questo erano spuntate due mani al posto delle zampe anteriori, una cosa abominevole che l’ha portata ad una crisi di nervi incurabile ed a una torbida storia di piume succhiate…

Il ranocchio ristette assorto – Già, bruttissimo episodio, ve lo posso assicurare. Soprattutto perché le mani erano spaventosamente grandi rispetto al resto del mio corpo. Ma vi garantisco che in un primo momento ci siamo divertiti a… –

La principessa lanciò un grido – Eri tu?  Orrore!

– Ero io. Ma l’intero spregevole esito della faccenda è da imputarsi al fatto che la vostra nobile cugina non possieda lo stesso lignaggio che avete Voi. In seguito a quell’increscioso episodio qualcuno mi ha raccontato che sua madre…

– Fermati subito! – gli intimò – Non permetterti di andare oltre! Non ti bacerò solo perché sei stato maledetto, se qualcuno lo ha fatto avrà avuto le sue buone ragioni. In più non voglio prendermi la mononucleosi o peggio, solo perché mi hai riportato il volano. Avresti dovuto farlo per gentilezza. Questo tuo cupido desiderio non verrà esaudito, stanne certo.

– Non sono d’accordo. Io ho diritto alla mia ricompensa. E se voi non vorrete concedermela andrò dal Re vostro padre e protesterò per la tua mancanza di giustezza.

– Giustizia, vorrai dire.

Giustezza. – replicò seraficamente l’anfibio mentre la principessa si incamminava a passo svelto verso il castello lasciandolo solo e verde.

Passarono alcuni giorni, presumibilmente quelli che servirono al ranocchio per raggiungere il castello e, successivamente, essere ammesso all’udienza settimanale che si teneva nella sala del trono (0,74 : 1,5  = X : 1250 /t) . Arrivato faticosamente davanti al Re spiegò l’abuso del quale era stato vittima. Bisogna precisare a questo punto della storia che l’anfibio in questione era molto amante della lettura e che poteva esprimere perfettamente il proprio sensato pensiero grazie ai manuali di psicofilosofia dei quali era un avido lettore. Il Re, che possedeva solo una conoscenza empirica delle cose poiché non riteneva fosse necessario caricare la mente con troppe informazioni (come ripeteva spesso durante le cene ove la conversazione languiva: “il troppo sapere fa divenir folli” come, per altro, avevano dimostrato i suoi nobili predecessori, folli ancora prima di acculturarsi). Il Re, dicevamo, rimase tanto colpito dall’ars oratoria della bestiola da offrirgli un lavoro come avvocatopalista di Corte (posizione che vide educatamente declinata) e a convocare la figlia per emettere l’impietosa sentenza che regola tutti i regni di fiaba: le ordinò di far ritornare umano sans faille quell’enorme ranocchio e alla povera principessa non rimase altro da fare che rispettare il volere del sovrano. Si ritrovò qualche minuto dopo nella stanza ormai deserta, a fissare quell’enorme ranocchio dallo sguardo soddisfatto.

– Sei davvero cocciuto – gli disse storcendo la bocca.

– Ve l’avevo detto che ci sarebbero state conseguenze se non mi aveste dato quello che mi spettava – proferì serio l’animale.

– Bene, se desideri ritornare umano – gli occhi della principessa si illuminarono – farò quello che mi è stato ordinato. Ma dimmi, chi è stato a trasfigurarti?

– Una strega, ve l’ho detto.

– Sì, – convenne, paziente la giovane – l’avevo capito. Ma quale? Ce ne sono parecchie nel reame e mi piacerebbe sapere a chi devo il piacere di questa impresa.

– Oh, sapete, non ricordo bene. Per me si somigliano tutte.

– Fai uno sforzo, carino. Mi sembra molto strano che una strega qualsiasi ti abbia fatto un incantesimo e che non ti ricordi nemmeno chi sia.

Il ranocchio sembrava molto seccato da quel contrattempo e dopo qualche momento di silenzio riprese pacatamente, dicendo – Avete sentito cosa è successo l’altra sera nel villaggio di Oghionchi? Pare che una banda di ladri sia entrata nella casa del sindacotorinolaringoiatra mentre dormiva con la moglie ed abbia rubato tutti i calzini destri di lui e tutti gli assorbenti interni di lei. Li hanno legati al letto e li hanno obbligati ad ascoltare un disco dei Pooh per tutta la notte. Ma nemmeno il disco intero, solo piccola Ketty, ve lo immaginate? Quando li hanno trovati la mattina dopo erano divenuti completamente folli. Appena slegati hanno cominciato a dondolarsi in preda ad un pianto irrefrenabile, strappandosi i capelli a ciocche. Hanno dovuto sedare il sindacotorinolaringoiatra con una dose per equini, la signora invece è stata gettata ancora vestita in una vasca di acqua gelata. Molto, molto strano. Una faccenda incresciosa. Mi chiedo cosa ci facciano esclusivamente con i calzini destri.

– Sì, l’ho sentito ovviamente. – la principessa incrociò le braccia – Purtroppo però questo non ha nulla a che vedere con quanto ti ho chiesto. Voglio sapere chi ti ha fatto il maleficio. Adesso.

– Una strega. Ve l’ho detto. Una strega cattiva.

– Nome. E indirizzo. Su-bi-to, è un ordine.

– Mi rifiuto di concedere tali informazioni.

– E io mi rifiuto di baciarti finché non le avrò ottenute. Stallo alla messicana.

– Questa definizione è imprecisa principessa: lo stallo alla messicana, in inglese Mexican standoff o Mexican standout (detto anche triello) è un termine che indica una situazione nella quale tre persone si tengono sotto tiro a vicenda in modo che nessuno possa attaccare un avversario senza essere a propria volta colpito. L’origine di questa espressione è incerta, ma può essere collegata alla difficile e paradossale condizione sociale ed economica del Messico del XIX secolo. Lo stallo alla messicana ha conosciuto una delle sue interpretazioni più famose in Il buono, il brutto, il cattivo, ma oggigiorno è considerato un cliché cinematografico grazie al suo grande uso negli spaghetti-western e nei film di serie B. Il Mexican standoff è una presenza molto diffusa anche nei film di yakuza giapponesi, paradigmatico è quello presente nel film Il vagabondo di Tôkyô (Tôkyô Nagaremono) di Seijun Suzuki. È stato ripreso e reso celebre da registi come Quentin Tarantino e John Woo, e successivamente Robert Rodríguez. Avete presente chi è Quentin Tarantino, vero?

– Conosco vagamente Quentin Tarantino, so che non ha mai finito le scuole superiori.

– E comunque siamo solo in due.

– Sai che sei davvero irritante? Scommetto che è per questo che la strega ti ha trasformato.

– No, non è per questo.

– Bene, sappi che finché non mi darai nome indirizzo e numero di telefono della strega in questione io non ti bacerò. La scelta è solo tua anfibio. – Detto questo uscì dalla stanza sbattendo la porta. Il ranocchio si guardò intorno. Fece qualche balzo in avanti, aspettò. Considerò tutte le eventualità che la situazione presentava. Rifletté sui pro ed i contro.  Si diresse verso la porta e si ricordò, all’improvviso e con amarezza, di non avere più il pollice opponibile.

La principessa si vide obbligata a ritornare nella sala del trono. Le era stato fatto presente che un ordine Reale è un ordine Reale e che non avrebbe mai potuto, in nessun caso, per nessuna ragione, sottrarsi alla sanzione inflittale dal Re. Trovò il ranocchio placidamente appoggiato su un cuscino di velluto ai piedi del seggio reale, non sembrava particolarmente stupito di vederla e per questo lei si stizzì.

– Beh, sono tornata, ranocchio.

– Lo posso vedere da me, grazie.

– Pare che debba proprio baciarti. Ho provato a chiedere all’acrobatavvocato di Corte ma…

– Lo dite come se fosse una cosa brutta. I baci sono belli, e romantici.

– Ti faccio presente che sono obbligata a farlo perché tu ti sei incaponito nel volere una ricompensa sulla quale NON ci eravamo accordati e che IO trovo ingiusta.

– Beh, principessa, mi dispiace molto che la vediate così. Quando sarò tornato umano sarete contenta di averlo fatto, ve lo assicuro.

La principessa storse la bocca incrociando le braccia sul petto. Osservava l’anfibio cercando di convincersi che la pelle verdastra non le facesse ribrezzo, che i suoi occhi gialli in realtà fossero dorati, che le zampe possedessero un’eleganza ancestrale; nonostante tutti i suoi sforzi, però, continuava a vederlo per quello che esattamente era: un abnorme ranocchio. – Forse – riprese la principessa in un sospiro – dovremmo conoscerci un po’ meglio, così io potrei essere più, diciamo, a mio agio all’idea di baciarti. E magari potresti farmi la cortesia di passare un test sulla mononucleosi, è una malattia perniciosa.

– D’accordo, facciamo così. Conosciamoci un po’ meglio. – il ranocchio sembrava diventato improvvisamente serio – ma sappiate che voglio sempre stare al vostro fianco, mangiare accanto a voi, dormire sul vostro guanciale, essere portato nella vostra tasca. Saltellare tenendo il vostro passo è molto difficile.

– E sia.  Ma niente doccia insieme e non entrerai MAI nel bagno insieme a me. Ci sono luoghi in cui una ragazza ha il diritto di stare da sola.

Suggellando il patto con una delicata stretta di mano (una vera, l’altra in potenza) i due uscirono dalla sala del trono per cominciare quella che sarebbe potuta divenire una convivenza piuttosto piacevole per entrambi: la principessa lo portò a vedere e cavalcare i pony reali, a passeggiare nei frutteti per cogliere mele persiche succose e dolci, a lezione di danza e galateo (corsi non opzionabili) ed a visitare l’ala del palazzo dove erano esposti i ritratti di famiglia. Il ranocchio le raccontava delle sue letture, le mostrava le differenti specie di farfalle prima di acchiapparle con la lunga lingua appiccicosa e le traduceva dal francese le sue poesie preferite. La principessa cominciò a provare una specie di affetto per il ranocchio. I giorni cedevano il passo alle settimane fino ad arrivare a una luminosa mattina di Settembre nella quale la giovinetta si decise a proporre il fatidico bacio, ma solo dopo la colazione.

Il ranocchio, sospirando come se avesse corso la maratona di Maratona, si ritrovò in uno stato di euforia tale da arrivare addirittura dimenticare che l’aveva sinceramente ed appassionatamente detestata. Trepidava silenzioso. Voleva mantenere il dignitoso contegno del quale si era fregiato fino a quel momento e ripensava alle notti in cui si era strofinato contro le labbra dormienti della principessa nella speranza di porre fine a quella penosa convivenza; purtroppo l’assenza di un qualsiasi risultato lo aveva obbligato a rinnovare ogni giorno l’interesse per i pony, la frutta ed il ballo. Ogni giorno fino a quello.

Fu così che, seduti sul bordo del letto, le labbra della principessa incontrarono quelle del ranocchio che, paziente, si era raccolto nelle mani di lei. Come ogni bacio, questo fu dato con tutte le aspettative che il caso richiedeva: la giovane sperava che il suo affetto si sarebbe incarnato in un nobile principe, il ranocchio assaporava l’idea di tutto quello che sarebbe riuscito nuovamente a fare grazie alle umane sembianze. Quando la principessa riaprì gli occhi, il cuoricino le martellava nel petto ed il respiro ne sottolineava l’impazienza, tra le sue mani non c’era più il verde e lucido anfibio maculato di giada ma…

 

La seconda (e ultima) parte vi aspetta

il prossimo venerdì, 5 Ottobre 2018!

Il circolo letterario degli amatori di bucce di patate di Guernesé… Gueren’sé…Gherneesée… vabbé, Ghernesé.

Résultat de recherche d'images pour "le cercle littéraire de guernesey livre"La mia aestas horribilis é stata resa sopprtabile dalla lettura di questo romanzetto americano ambientato in Inghilterra che, per puro caso, ho incontrato sullo scaffale di una libreria francese.

Lettura godibile che suscita l’incanto che solo un romanzo epistolare può evocare: tutto il fascino dei personaggi é da imputarsi alle loro parole ed a come vengono usate nelle lettere che, fitte, si rincorrono sulle pagine; nessuna descrizione fisica é riportata, se non per comunicare al lettore chi é sciancato, gobbo, appestato o segnato da Dio. Le pagine tralasciano volentieri le pommettes rosées (d’une beauté malicieuse) delle belle signore dell’aristocrazia inglese. Siamo nel 1946, appena dopo la seconda guerra mondiale, quindi pare normale che il numero degli “infermicci” sia pari o superiore a quello della gente “normale”, che i tedeschi siano biondi e cattivissimi, le donne stizzose e gli uomini beoni con i pantaloni. Grazie al cielo non si risolve tutto qui, la delicatezza del racconto e la giustezza delle intenzioni cullano il lettore verso una conclusione degna della migliore Jane Austen. Non si può gridare al capolavoro ma di certo si può puntare il dito su uno dei più grandi successi commerciali degli ultimi anni.

Sull’isola di Guernesay (che non ho ancora capito bene come si pronuncia, da qui il titolo del post) ritroviamo una comunità tenuta letteralmente in vita dalla lettura; potrei citarvi Pushkin (che ognuno scrive come vuole dato che qui nessuno ha intenzione di bullarsi con il cirillico) ma sarebbe troppo pretenzioso per il libro di narrativa di tal fatta.  La società letteraria di Guernesay (brutto titolo italiano edito da Sonzogno) rimane comunque un volumetto molto piacevole che vi consiglio caldamente di accogliere nelle vostre biblioteche.

In più, come da buona tradizione capitalista, ne è stato tratto un film distribuito da Netflix ( potete trovare il trailer linkato qui: https://www.youtube.com/watch?v=fRloeR1R8VQ) che vede tra i protagonisti la metà dei belloni di Downton Abbey ma che, dal mio modesto punto di vista, non sono abbastanza malridotti e scoloriti per suscitare la giusta quantità di serafica empatia che solo i campagnoli veraci e post-bellici sanno dare. Ma si sa, l’occhio vuole la sua parte e quello di Netflix non é da meno.

Buona lettura, miei piccoli millebollettori!